“Mi chiamo Sergio Dogliani e di professione faccio il non-bibliotecario. Cosa vuol dire? Vuol dire che da 10 anni, a Londra, dirigo delle biblioteche un po’ diverse dal solito che si chiamano Idea Stores, ma che non sono un bibliotecario di formazione”.
Nato a Rivoli (Torino) nel 1959, dopo un primo soggiorno di un anno nel 1980, si è trasferito definitivamente a Londra nel 1984, dove ha cominciato una carriera di insegnante di italiano. Dopo aver insegnato anche cucina e informatica, nel 1991 è diventato direttore delle facoltà di lingue, informatica e materie umanistiche. Nel 2002 è diventato il primo Idea Store Manager, aprendo Idea Store Bow. In seguito, ha ottenuto l’incarico di Principal Idea Store Manager, trasformatosi nel 2010 nell’attuale Deputy Head of Idea Store. Oltre ad aver contribuito a libri sull’esperienza Idea Store in Francia e Spagna, ha pubblicato articoli su giornali e riviste in Italia, in Spagna, in Francia e in Gran Bretagna. E’ sposato con Emma Dogliani, soprano, e insieme hanno tre figli.
Sergio Dogliani in Facebook
Twitter: @sergiodogliani
1. Perché hai scelto il lavoro/mestiere che fai?
Al mio lavoro (direttore di Idea Store, una rete di biblioteche innovative a Londra) ci sono arrivato grazie al suggerimento di una mia capa, che pensava sarei stato la persona ideale per lanciare questo progetto nel 2002. Io allora ero direttore di corsi di formazione continua in un college, ma avevo sempre avuto un forte interesse per la lettura e una passione per le biblioteche, perciò la prospettiva di unire la mia esperienza nell’insegnamento a questo nuovo tipo di biblioteche mi aveva entusiasmato. Mi è sempre piaciuto lavorare con la gente (piuttosto che con le cose), e soprattutto poter essere d’aiuto a chi ne ha più bisogno. Lavorare in una delle zone più disagiate di Londra, rendendo la lettura e l’istruzione più accessibile a tutti, è uno dei modi migliori di farlo.
2. Qual è l’aggettivo che meglio definisce la tua attività?
Meritevole, il mio lavoro è tanto e faticoso, ma ne vale proprio la pena.
3. Qual è il tuo primo ricordo di una biblioteca?
Sono cresciuto nella periferia di Torino in una famiglia moderatamente devota e mia madre, quando ero piccolo, insisteva nel farmi andare a messa tutte le domeniche. Arrivato a dodici anni, come tutti quando si cresce, avevo cominciato a pormi una serie di “grandi domande”. Poi un giorno ho scoperto una biblioteca, non lontano da casa. E lì, inaspettatamente, in mezzo a tutti quei libri, ho trovato molte delle risposte che non riuscivo più a trovare in chiesa. Da lì in poi ho abbandonato la chiesa a favore della biblioteca, una decisione di grande impatto nella mia vita molti anni dopo.
4. Come definiresti la biblioteca?
Quella pubblica? Dipende a chi ci rivolgiamo: un punto d’incontro, un campo neutro, un rifugio, un magazzino, un distributore, un deposito, un palcoscenico, un trampolino, un laboratorio, un baluardo, un avamposto, una trincea, un’oasi, un’incubatrice, un crocevia, un crogiuolo, una scatola di Pandora.
O “una piazza del sapere”, come la definisce la mia amica Antonella Agnoli.
5. Cosa ti piace di più in una biblioteca?
Il fatto che sia uno dei pochi posti rimasti dove non importa chi sei e cosa fai, sei libero di entrare quando vuoi. E ogni volta che ne esci ti senti più ricco.
6. Quale è stato il primo libro che hai letto?
“Pinocchio” di Collodi, e mi era piaciuto, ma poco dopo ho letto “I Ragazzi della Via Paal” dell’ungherese Ferenc Molnár, che mi è piaciuto ancora di più, perché oltre alla fantasia aveva un forte realismo e un fascino universale, sopratutto per un bambino come me che allora (dieci anni, figlio unico), stava cominciando a capire due o tre cose sulla vita, l’amicizia e altro.
7. Quale libro ti ha lasciato un ricordo speciale?
Difficile trovarne uno solo, vorrei nominarne almeno tre… allora dico “I Nostri Antenati” di Italo Calvino, così posso farci entrare la sua trilogia (Il Visconte Dimezzato, Il Barone Rampante, Il Cavaliere Inesistente). Li ho letti quando sono arrivato a Londra trent’anni fa, e anche se non sono ambientati in un’Italia riconoscibile nel tempo e nello spazio, mi è sempre piaciuto considerarli come un legame con il mio paese d’origine, paese che amo ancora (nonostante alcuni suoi abitanti a volte imperfetti quanto i personaggi di Calvino), per la forte umanità che si trova per la strada.
8. Quale libro consiglieresti a un giovane lettore?
“Martin Eden” di Jack London. Io l’ho scoperto a quindici anni, dopo aver letto, da piccolo, gli altri suoi classici (Zanna Bianca, ecc). Martin Eden è la storia di un giovane proletario autodidatta che diventa scrittore. Mi aveva fatto impressione ed è un libro che regalo volentieri. Qualche anno fa, in visita in California con mio figlio Zaki (allora adolescente), eravamo andati a cercare la casa di Jack London, nella Sonoma Valley, a nord di San Francisco. Ci siamo arrivati in una fredda e piovosa giornata di febbraio, attraversando una foresta di sequoie – mi ricordo ancora la magia di riconoscere un posto che avevo conosciuto solo attraverso i libri.
9. Leggere fa bene? E perché?
Mah, da piccolo ad un certo punto credevo che leggere non facesse per niente bene, almeno a sentire mia nonna, che nel vedermi sempre rannicchiato sul suo sofà a leggere aveva detto a mia madre che era preoccupata per la mia salute! Leggere – da soli o in compagnia – fa benissimo, come dimostrato da studi sui benefici della lettura per la salute mentale, la senilità e la solitudine. E non solo fa bene leggere romanzi, racconti e poesie, anche la lettura di manuali sulla salute e sul benessere e le biografie di persone colpite da malattie, possono essere un aiuto pratico nel farci sentire meglio. Ad Idea Store recentemente, per lanciare il nostro manifesto sui benefici della lettura per la salute, abbiamo adottato la scritta che c’era davanti all’antica biblioteca di Tebe: “Medicina per l’anima”.
10. A quale altra domanda avresti voluto rispondere?
Questa: “Secondo te in che modo e’ cambiata l’Italia da quando ti sei trasferito all’estero?”
A sentire chi ci abita sembra peggiorata, la mancanza di opportunità per i giovani che mi aveva spinto a lasciarla trent’anni fa non sono aumentate, anzi, direi il contrario, almeno a giudicare dai tanti giovani italiani che scelgono di andarsene. La situazione di certo è preoccupante nel settore della cultura, compreso il settore delle biblioteche pubbliche dove il fatto di non poter rinnovare il personale, per esempio, sta paralizzando i servizi. Detto questo, ogni volta che ritorno mi sorprende la caparbietà di operatori che non si danno per vinti, di cooperative che intervengono, prendono in mano la situazione e ne escono vincenti, di volontari che si impegnano con tanta passione (e anche competenza) nel realizzare bellissimi progetti. Sono appena tornato dalla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, dove tra le altre cose ho sentito di ottimi realtà a Napoli e in Puglia che meriterebbero il supporto delle istituzioni. In certi casi la crisi economica ha fatto fare delle riflessioni interessanti, ed alcuni operatori sembra abbiano le idee più chiare (e secondo me meglio di quelle di trent’anni fa) – ma non basta, hanno bisogno di una dirigenza che capisca che la cultura, quella con la ‘c’ minuscola, va fatta partendo dalla base.
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