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Antonio G. Bortoluzzi sarà ospite della Biblioteca venerdì 3 maggio alle ore 18.00 all’interno della rassegna “Porte Aperte. Luoghi, culture e voci dal territorio“. L’autore presenterà il suo libro “Il saldatore del Vajont” e dialogherà con Annalisa Bruni.

Mi chiamo Antonio Giacomo Bortoluzzi e sono nato nel 1965 in un piccolo borgo in Valturcana, nella conca dell’Alpago, in provincia di Belluno.
Poche case, molte stalle e sei famiglie. Prati ripidi, boschi, bestie, vecchi, donne e ragazzini. Una strada bianca tutta in salita che portava ad altri abitati altrettanto piccoli e senza la tabella con il nome.
Nel borgo non c’era nulla: né un prato abbastanza in piano per fare una partita a calcio, né una bottega o una chiesetta. Tantomeno un telefono. C’erano un lampione, un portone di legno pieno di puntine dove mettevano gli annunci mortuari e un capitello di San Fermo con una spessa grata di metallo.
Ho cominciato a lavorare nei cantieri e in fabbrica molto presto, poi ho incontrato i libri, e il mondo è cambiato.

  1. Perché hai scelto il lavoro/mestiere che fai?
    Per me scrivere è una grande passione. Amavo e amo leggere, e ho sempre trovato meraviglioso come i grandi scrittori e le grandi scrittrici riuscissero a mettere sulla pagina (con quei segni fissi, quell’organizzazione apparentemente rigida) così tante scene, emozioni, sentimenti, idee. E ho capito che il mondo e la vita potevano essere narrati.
  2. Qual è l’aggettivo che meglio definisce la tua attività?
    Avventurosa.
  3. Qual è il tuo primo ricordo di una biblioteca?
    Era la piccola biblioteca della scuola media, c’erano gli armadi, le antine di vetro e dentro c’erano i libri accostati l’uno all’altro. L’idea che mi ero fatto è che fosse roba dei prof, e quindi fosse meglio non toccare. E mi sbagliavo.
  4. Come definiresti la biblioteca?
    Il luogo della scoperta.
  5. Cosa ti piace di più in una biblioteca?
    L’incontro con le persone. E quel magico evento che accade quando chiedi il titolo di un libro ed è subito individuato in mezzo a migliaia di altri.
  6. Quale è stato il primo libro che hai letto?
    Possiedo ancora l’unico libro che avevo in casa da bambino, s’intitola Bisonte nero, racconto indiano (L. Mellano, Ditta G. B. Paravia, Torino). È stato pubblicato nell’agosto del 1900 ed è ancora perfettamente leggibile dopo 124 anni, e lo sarà ancora per molto tempo. Il libro è anche un oggetto tecnico modernissimo, resistente, duraturo, e consultabile in ogni momento. Ed è sempre “acceso”, anche senza energia elettrica.
  7. Quale libro ti ha lasciato un ricordo speciale?
    Quando ho letto I quarantanove racconti di Ernest Hemingway, mi è sembrato di trovare il grande manuale sulla scrittura che cercavo da anni.
  8. Quale libro consiglieresti a un giovane lettore?
    L’isola misteriosa di Jules Verne mi era piaciuto moltissimo quand’ero ragazzino. Un’avventura che mi aveva totalmente assorbito, e poi c’era quell’idea che gli uomini, lavorando, studiando, sperimentando insieme potessero farcela contro le “avversità” della vita.
    Un’avventura ottocentesca, solida, che si può leggere anche nella forma di graphic novel.
  9. Leggere fa bene? E perché?
    Leggere un buon libro (quindi seguire una narrazione abbastanza lunga) è passare del tempo fuori di sé e allo stesso tempo dentro di sé. Significa imparare un sacco di cose, divertirsi e commuoversi, maturare dei sentimenti che ci accompagneranno per molto tempo, forse per tutta la vita.
    E poi leggere fa bene perché ci fa compagnia.
  10. A quale altra domanda avresti voluto rispondere?
    Le domande mi hanno fatto riflettere e mi è piaciuto rispondere, potrei aggiungere una considerazione, visto che abbiamo parlato molto di biblioteche: secondo me un ruolo importante della cultura (e dei luoghi della cultura) è l’incontro, la relazione, lo stare insieme. Il riconoscerci.



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